Charles Dupaty

Cenni biografici

Nato a La Rochelle (Bordeaux) nel 1744, fu avvocato generale e Président à Mortier al Parlamento di Bordeaux, carica molto importante nella Giustizia francese dell’Ancien Régime; aderivano al titolo i magistrati principali delle più alte istituzioni. Si fece un nome, oltre che per il suo attivismo politico, anche grazie agli interessi letterari. Tra le sue pubblicazioni:

  • Mémoire pour trois hommes condamnés à la roue (riuscì a salvargli la vita);
  • Réflexions historiques sur les lois criminelles;
  • Lettres sur l'Italie, 1785.

Dupaty intraprese un viaggio negli stati italiani con lo scopo dichiarato di studiarne le riforme giuridiche e la procedura criminale quindi parti per Avignone e, passando da Tolone e Nizza, visitò Genova, Lucca, Firenze, Roma e Napoli. Lettres sur l'Italie ebbe un discreto successo in Francia soprattutto per l'interesse nei confronti dell’arte che crebbe in quegli anni sulla scia del Gran Tour. Ma l’opera non riscosse lo stesso entusiasmo a Roma, dove venne inserito nell’Index Librorum Prohibitorum, forse proprio a causa del suo approfondire tematiche socio-politiche invise ai rappresentanti delle classi sociali elevate. Charles M. J.B Dupaty morì a Parigi il 1788.

 

Lettres sur l’Italie 1785 


Le lettere di C. Dupaty si contraddistinguono per una grande sensibilità artistica e sociale. Molti sono gli argomenti trattati, e nelle lettere genovesi, che ho tradotto, emerge, in particolare, una chiara denuncia verso le autorità, accusate di aver trascurato gli interessi dei deboli a favore di quella casta borghese e nobiliare che deteneva il potere della città. Dupaty, durante il Grand Tour in Italia, ha modo di conoscere la società italiana, tanto dissimile per usi e costumi dalla Francia pre-rivoluzionaria che egli conosce.

- Traduzione delle lettere-


Lettera VII, a Genova :

Esco dai Palazzi Brignole, Serra e Chiagera. Sono abbagliato, colpito, radioso: non so nemmeno dire cosa io sia! I miei occhi sono colmi d’oro, di marmo, di basalto, di alabastro, di colonne, di pilastri, di capitelli, in ornamenti di tutte le specie, di tutte le forme, di tutti i generi, ionici, dorici, corinzi. Mille quadri sono sparsi come brandelli nella mia immaginazione. Vedo delle teste, dei cadaveri, dei vecchi e delle fanciulle, delle veneri e delle vergini. Ecco delle lacrime dolorose colare dagli occhi di un venerabile vecchio. Ecco illuminarsi un sorriso charmant sulle labbra di una fanciulla affascinante di quindici anni: credo sia il suo primo sorriso. Tuttavia, all’interno di questa miriade di quadri frantumati, ve ne sono alcuni interi. In primo luogo un quadro del Veronese. Giuditta ha appena tagliato la testa a Oloferne. La seconda figura è una negra; essa dà forma assieme a Giuditta a un mirabile contrasto. La natura lotta con il fanatismo sul viso viso di Giuditta e in tutto il suo atteggiamento: ella non osa guardare la testa che la sua mano tremante tiene. La seconda, che non è vittima del fanatismo, vedendo la testa e il crimine, freme d'orrore. La morte avvolge Oloferne.

Ma vale la pena di fissare i propri sguardi su di un’Assunzione di Guido Reni. Questa è una Vergine! Questi sono degli Angeli! Questo è salire al cielo! Al centro delle figure, degli angeli in coro, più belli e più affascinanti gli uni degli altri, si danno la mano. Senza alcuna pena, senza nessuno sforzo, essi seguono la Vergine verso i cieli, mentre noi altri mortali precipiteremmo verso la terra! Quale purezza su questa fronte divina! I suoi sguardi hanno già trafitto il cielo e si riposano nel petto divino di Dio che l’aspetta. Essi sono impregnati di una felicità celeste. Fra questi angeli, di ogni età della gioventù, ve ne sono di così piccoli che gli altri tendono loro una mano per aiutarli a seguirli. Questi, sostengono la Vergine; quegli altri si sostengono a vicenda. Quale conquista per loro! Angelica è l’immaginazione che ha concepito questo quadro!

Ma chi è questa donna distesa sul letto? Ella non è velata se non dalla morte. La morte è già nei piedi, nelle gambe; la prende lungo le braccia. Un briciolo di amore e di dolore svanisce su questa fronte pallida. Ė Cleopatra. Così queste grazie famose, che avevano tanto tempo fa catturato Antonio e sedotto per un istante Cesare, che avevano fatto quasi tanto rumore e devastazione nell’universo quanto le armi romane ne avevano fatto, eccole morte; e poco dopo non la si chiamerà più Cleopatra, ma Cadavere.

Mi ricordo ancora di molti altri quadri. Un Cristo che lascia toccare la sua piaga a S. Tommaso. Un Lazzaro che resuscita. Un Giacobbe, a cui si porge la camicia insanguinata di Joseph (Giuseppe). Non ci sono termini per descriverli in nessuna lingua. Ho bisogno che il sonno venga a chiuderemi gli occhi; essi sono troppo stanchi di ammirare.

Lettera VIII , a Genova:

Sono le sei del mattino. La mia immaginazione si sveglia nel salone di Palazzo Serra o piuttosto del palazzo del Sole. Socchiudo ancora le palpebre. Non si può dare l’idea della magnificenza di questo salone. Come la natura quando la si guarda attraverso un prisma, così è il salone di Palazzo Serra. Che specchi! Che lastricato! Che colonne! Non c’è che oro! Che azzurro! Che porfido! Il nome che meglio conviene è magnificenza.

Se si vuole vedere la più bella strada che esista in tutto il mondo, occorre vedere Strada Nuova. Su due linee molto prolungate e su di un lastricato di lava, una folla di palazzi discutono insieme di ricchezza, di elevazione e di massa, fanno sfoggio dei loro portici, delle loro facciate, dei loro peristili brillanti di uno stucco bianco, nero, di mille colori. Questi palazzi sono esteriormente dei veri e propri quadri. Le case di Genova sono molto alte e le strade molto strette. Il sole non ci scende mai. Si sarebbe tentati di credere che Genova non sia stata costruita che per una stagione: che Genova sia una città d'estate.I proprietari di questi bei palazzi, per la maggior parte nobili o Senatori, ignorano le bellezze che possiedono o non le apprendono se non dall'ammirazione degli stranieri e dalla rinomanza che li vanta. A fianco di questi saloni, in questi stessi saloni dove i pennelli di Tiziano, di Van Dyck, di Rubens, di Veronese hanno operato, i nobili genovesi promuovono tutti i giorni le produzioni più volgari di artisti sconosciuti. Invece di abitare questi superbi appartamenti, essi alloggiano in stamberghe e non sembrano altro che i guardiani dei loro palazzi. Infine, questi portici di marmo, questi peristili di marmo, queste porte di marmo sono inondate ogni giorno da una folla di mendicanti che vengono a schiacciare i parassiti che li divorano sopra i lastricati di granito e di porfido, lavorati ad arte e puliti come specchi.

Ho appena visitato il palazzo del Doge, dove il Senato tiene le sue assemblee e da dove soffia, su cinquecento mila individui, lo spirito del suo governo, delle sue leggi, della sua politica, vale a dire della sua avarizia. Quando si entra nella corte, l’occhio resta stupefatto. La facciata, ornata di colonne e statue di marmo, incanta già dal principio. Si sale alla Sala del Piccolo Consiglio: è l’architettura più elegante; si passa nella Sala del Gran Consiglio: è l’architettura più straordinaria. Passo dopo passo, fra una moltitudine di colonne, le statue dei personaggi importanti della Repubblica ricevono da coloro che passano , in premio del loro merito o della loro fortuna, il debito della loro posterità, un ricordo o uno sguardo. Il Maresciallo R. è al centro di tutti questi nomi. Un incendio divorò questi monumenti nel 1773, insieme a un certo numero di quadri dei più grandi maestri. Sono stati ristabiliti gli edifici, ma non i quadri. Sono stati trovati degli architetti e degli scultori, ma non i pittori.

Uscendo dal palazzo del Doge, sono entrato in un palazzo superbo; ho attraversato un lungo colonnato, e dei marmi di tutti i colori; un’immensa porta si è aperta: ero in un Ospedale. Esso ospita centododici malati distribuiti nelle sale: là gli uomini, qui le donne; qui i feriti, là le febbri. Al centro di questi malati mi è sembrato di vedere la morte errare e sbandare da tutte le parti a caso, con la sua falce invisibile. Un disgraziato è spirato dinnanzi a me. I letti dei malati sono circondati dai loro parenti commossi che li confortano: c’è una madre presso la figlia e un marito presso la moglie. Almeno, in questo ospedale, delle mani sensibili e care possono chiudere gli occhi dei morenti. Qui regna un ordine mirabile, una pulizia perfetta, una cura estrema. Qui si guarisce! Le statue di tutti i benefattori dell’ospedale sono sparse nelle sale. Le persone riconoscenti possono andare, se le loro forze glielo consentono, ad annaffiare di lacrime senza dubbio dolci, le immagini dei loro dei protettori.

Non so che piacere trattenni in me in questo soggiorno di dolore.

Lettera IX – a Genova:

Sono stato a vedere ciò che a Genova chiamano Porto Franco. Ė un deposito dove si scaricano tutte le merci che arrivano a Genova via mare. Ne si vedono di tutti i tipi affiancate le une alle altre: delle masse di verderame e dei barili di zucchero, del marmo e del caffé, della legna e delle tele, dei prodotti dell’Asia e del Nord . Ė un movimento, un’attività, un’affluenza che non si può immaginare. Due grandi imposte del reddito pubblico sono applicate successivamente a ogni derrata, a ogni pacco: esse attingono, l’una, il dieci per cento nelle merci che restano a Genova; l’altra il tre per cento in quelle che passano. Il servizio dell’apporto e del movimento di tutte le merci, è dato dai bergamaschi che vengono a fare tra i genovesi il mestiere lucrativo con vigore e probità. Uscendo dal Porto Franco, sono stato a visitare il banco di S. Giorgio. Ė là, che rinchiusa sotto cento chiavi, c’è la soluzione di questo grande e terribile enigma; se la banca ha dei miliardi o se deve dei miliardi. Questo enigma è la salute dello stato, e in parte la sua ricchezza. Come! Non ci sono a Genova che un panificio e un cabaret pubblici, amministrati e regolati sotto l’autorità del senato! Sì, la repubblica non offre altro, che essa venda il pane, il vino, la legna o l’olio. Che venda queste derrate al prezzo più basso e della migliore qualità al fine di prevenire il maligno vociferare? – La Repubblica vende al prezzo più alto e della più cattiva qualità senza imbarazzarsi delle maldicenze.- In che modo quindi i genovesi possono tollerare un tale monopolio? – costoro mendicano, rubano, hanno dei ricoveri, uccidono, soffrono. – Ma come sopportano infine queste oppressioni? – La misura delle oppressioni che si possono sopportare non è ancora al culmine. Il popolo non si rivolta quando vuole; l’acqua che riempie un vaso non si sparge ancora: è necessaria una goccia di troppo. Si tratta unicamente, per i nobili, di impedire che venga versata questa goccia di troppo. Essi sacrificano in conseguenza una parte della loro autorità alla loro avarizia: la maggior parte degli ordinamenti senza esecuzione, lasciano i tre quarti dei crimini impuniti; comprano il silenzio di quelli che gridano. Si pensa tuttavia, che la goccia di troppo sia inevitabile: la pazienza del popolo è stanca. Ma poco importa ai nobili genovesi; l’importante per loro è di essere ricchi: se ne vedono molti rifiutare un posto al Senato quando si sorteggia la loro presenza, e brigare al contrario il minimo posto nell’amministrazione della banca o degli ospedali. I nobili mancano del più importante interesse per meglio governare un paese; essi non hanno un paese. Sono in effetti dei negozianti. Sono stato a vedere la panetteria pubblica. L’edificio è immenso. Ecco il pane dei ricchi, e ecco qui il pane dei poveri; e i poveri sono i più numerosi! I poveri sono ovunque in una posizione intermedia fra i ricchi e gli animali: sono ben più vicini a quest’ultimi. Ho voluto assaggiare il pane di questi. Gli animali sono felici. Uscendo da questo posto, ho conservato nella mia anima non so quale impressione, sulla quale si sono smorzate un momento dopo, tutte le bellezze e tutte le ricchezze del Palazzo Durazzo. Ah! Come fanno male agli occhi il lusso e la magnificenza quando si è appena finito di vedere la miseria!

Lettera X – a Genova:

Sono ritornato a Palazzo Durazzo. Della folla di quadri che vi si ammira, solo quattro sono rimasti nella mia mente. L’uno è un vecchio di Rembrandt. Ė mirabile in verità, per l’effetto, per l’intelligenza del chiaroscuro. Sono stato tentato di rivolgergli la parola. Paolo Veronese aveva visto la Maddalena gettarsi ai piedi di Gesù? Gesù dovette avere questo atteggiamento, questo aspetto nobile, questo aspetto indulgente, quasi sul punto di commuoversi. La Maddalena è così bella! Ė soprattutto toccante! Ella è in effetti colpita! Che espressione nei tratti dei volti! E in che modo la luce va a cadere tutta in un punto, da dove in seguito distribuisce i suoi raggi in ogni parte che ne necessiti! Sulla superficie di questa tela c'è dell'imponenza. La maggior parte dei pittori sono dei traduttori, non dei poeti. Il Tasso era poeta quando ci ha mostrato Olindo e Sofronia attaccati allo stesso palo e aspettando che la pira prendesse fuoco. Ma chi è questo pittore che ha voluto copiare il Tasso? Non sento il lamento di Olindo, non vedo la rassegnazione di Sofronia; questo popolo non è commosso; questo tiranno non è in collera. Ho appena riletto il Tasso. […] Non sento niente di tutto questo guardando il quadro. Ė muto.

Lettera XI – a Genova :

Posso dire di aver assistito alla morte di Seneca vedendo un quadro in cui muore. Seneca è al centro del quadro; è mezzo nudo, come un uomo che non ha più bisogno di difendere il suo corpo dagli elementi ai quali è pronto a renderlo... I suoi piedi sono a bagno e il sangue cola. Un po’ distante dal filosofo e più in basso, si vede a destra un segretario che scriveva e che ora non scrive più; a sinistra, due segretari che scrivevano, e che non scrivono più. Sulla stessa linea, e all’altezza di Seneca, quest’uomo che intravedo è un soldato in un angolo e nell’ombra. Nell’angolo opposto, ma alla luce del sole, un altro uomo che vedo è un Senatore. Guardate la scena al presente: il vecchio aspettando la morte è occupato a dettare le idee che passano nella sua immaginazione. La morte le arresta. Il braccio è ghiacciato, nei piedi non circola più il sangue, il corpo si irrigidisce, la testa vacilla, e questo sguardo che prima fissava un pensiero ora si sforza di afferrarlo: esso si spegne. I tre segretari, con diverse sfumature di interesse, d’attenzione e d’inquietudine, ognuno con la penna alla mano, tengono gli occhi fissi alle labbra del filosofo il quale cerca ancora di pronunciare una parola. Sperano che un movimento in più vada a completarla, ma la morte vi ha già messo il sigillo. Tuttavia il centurione vicino alla porta, battendo il piede, conta gli ultimi sospiri del filosofo con impazienza perché Nerone aspetta. E il vecchio Senatore? Che fa? Pensa a Nerone e studia la morte di Seneca.


Lettera XII – a Genova:

Questa mattina, sono stato a visitare le galere. Cinque specie di disgraziati sono attaccati alla rinfusa alle catene: i criminali, i contrabbandieri, i disertori, i turchi presi dai corsari e i galeotti volontari. Dei galeotti volontari! - sono dei poveri che il governo va a cercare fra la fame e la morte. Ė in questa situazione di ristrettezza che il governo li aspetta, li spia. Questi miserabili, vedendo brillare un po’ di soldi, non si accorgono più delle galere. Vengono arruolati. La miseria e il crimine sono così attaccati l’un l’altro alla stessa catena! Colui che serve la Repubblica, condivide lo stesso supplizio di colui che la tradisce!

I genovesi spingono la barbarie ancora più lontano: da che vedono il momento della fine loro “arruolamento”, essi propongono di prestar lor qualche soldo. Quei disgraziati desiderano divertirsi; solo il presente esiste per loro; essi accettano, ma nel giro di otto giorni, non restano loro che dei rimpianti e restano ai ferri corti: così dopo otto giorni sono costretti, al fine di saldare il debito, ad arruolarsi nuovamente, a vendere altri otto anni della loro esistenza. Ed ecco come, da arruolamento a prestito e da prestito ad arruolamento, essi consumano le loro vite intere nelle galere, all’ultimo grado della miseria e dell’infamia: essi vi muoiono. Abbiamo visto fra loro un francese, un giovanotto. Raccontandoci la sua disgrazia versò qualche lacrima. Gli donammo qualche soldo; pianse ancora.

Usciamo da questi tristi luoghi dove non si può consolare dei mali di cui ci si lamenta. Luoghi questi, dove la pietà è inutile! Ma che cos’è quella specie di prigione posta in quell’angolo? – dico io all’uomo che mi scortava- Com’è bassa oscura e umida! La divide ancora un soppalco. Mi scusi, chi sono questi animali accucciati per terra, sopra il soppalco? – chiedo all’uomo che mi scorta - Riescono a mala pena a strisciare. Dei lunghi peli coprono le teste orrende che escono fuori dalle coperte. Il loro sguardo è inebetito e feroce.

Non mangiano che pane così duro e secco? – Certamente – Non bevono che quest’acqua melmosa? - Certamente – restano sempre accucciati? – Sì – Da quanto sono qui? - Da vent’anni – quanti anni hanno? – Sessanta – Come li chiamate? – Turchi - .

Questi miserabili turchi totalmente privati di umanità; non conoscono che i bisogni del corpo. In questa specie di sepolcro, hanno consumato il piccolo numero di idee e di ricordi della natura che avevano portato dal loro paese. Gli altri turchi che non hanno ancora sessant’anni, sono incatenati sotto piccole nicchie aperte distanziate di sei piedi in sei piedi in una lunga muraglia, dove essi possono a malapena restare seduti o sdraiati. Ė là che possono respirare quel poco d’aria che viene loro concessa, o meglio, che possono rubare. Tuttavia, i genovesi hanno dato un esempio di tolleranza, che non ci si sarebbe mai aspettati da loro. Hanno accordato a questi turchi una Moschea. I protestanti in Francia non hanno chiese.

Aggiungiamo un tratto al quadro delle galere. Vi ho visto vendere sotto banco, bramare, discutere, derubare anche, i resti d’alimenti che i cani avevano abbandonato nei paraggi, negli angoli delle strade.

Genova, i tuoi palazzi non sono ancora abbastanza elevati, né sufficientemente estesi, né abbastanza numerosi e brillanti; si vedono ancora le tue galere.


Lettera XIII – a Genova:

Voglio parlarvi dell’ex-Doge L. M. L., è un amabile e rispettabile vecchio. Conoscitore del mondo e dei libri, ha spesso trattato i differenti ruoli di rappresentanza della sua Repubblica, con gli interessi, le passioni, le debolezze e con il cuore in mano, che non è più né nobile, né ex-Doge, né Senatore, né genovese: è un uomo. Tutti i momenti che M.L. può rubare alla gloria li dona alla natura, nei suoi affascinantio giardini. Qui, la sua vita scorre dolcemente sui prati come l’acqua che li innaffia, e che cade notte e giorno dalle sue belle fontane. L., accoglie gli stranieri che lo vengono a trovare al Poggi, nonché quelli che vengono a visitare il Poggi. La sua anima, il suo spirito, i suoi giardini, tutto è aperto. I suoi modi di fare sono semplici e nobili; sono le abitudini di un uomo che è sempre stato di una certa levatura e che non si è mai montato la testa. Non c’è niente di più semplice che la sua accoglienza: all’inizio mette a proprio agio con la sua reputazione; ci si sente subito in sintonia. La conversazione con L., è spesso come la si desidera e a proposito di un argomento di cui si sa parlare; perché nella conversazione, nessuno come lui sa dimenticarsi di sé per ricordarsi degli altri. Tuttavia, M. L. preferisce discutere delle arti, delle scienze e delle lettere che ha coltivato per tutta la vita e che, dopo aver contribuito alla sua fama, l’hanno spesso consolato. Il suo orecchio e la sua immaginazione sono ancora pieni dei più bei quadri e delle più belle arie che la poesia abbia mai composto in tutte le lingue. Citazioni che nascono; dei tratti che sfuggono; riflessioni che sembrano fini e che sono profonde, scintillano incessantemente nei suoi discorsi, tra i pensieri della vecchiaia. Ė possibile contraddirlo; si corre il rischio di urtare le sue opinioni, ma mai il suo amor proprio. L. non lo mortifica perché quando non dubita più del suo pensiero dubita ancora di quello umano. Tutto ciò che sa, non dimentica di averlo appreso. Risponde liberamente ma senza ostentazione, e rivela la verità a tutti. L. è sempre lo stesso, in città e in campagna, al Senato, quando crea una legge e nei suoi boschi, quando pianta un arbusto. I giardini del Poggi sono deliziosi. Sembrano lontani da questi giardini simmetrici che l’architettura ha qui costruito; a questi giardini, dove sotto l’imporsi monotono e severo delle cesoie, del rastrello e della linea dritta, ogni aiuola non offre che un fiore, ogni percorso non offre che un albero, ogni spazio un grande cammino dove il tutto non presenta che un insieme compatto; in questi giardini le acque sono catturate in bacini e condannate a dormire e a tacere in eterno; questi giardini, per quanto vasti siano, sembrano tuttavia non essere stati creati che per un rapido sguardo, un centinaio di passi e un'ora di tempo. Al contrario, tutto ciò che la conoscenza e l’amore della bella natura possono creare per affascinare l’occhio, l’immaginazione e il cuore, con il prato, la terra, l’acqua, i fiori, con tutte le ombreggiature dei vegetali e i diversi raggi di sole, L. lo ha creato.

Questi bei giardini presentano, o piuttosto racchiudono un recinto abbastanza limitato, che fornisce sempre lo spazio ai vostri passi, oggetti ai vostri occhi e sempre fantasie alla vostra anima.Non c'è in questo recinto un fiore che non brilli, non una goccia d'acqua che non mormori e che non coli, non un albero che non appaia e non uno solo che si mostri. Là una capanna, qui una grotta, più lontano un gregge; incontrerete per caso mille oggetti, che sono però collocati ad arte. Pur essendo in un giardino ci si sente in campagna: si passeggia sempre. Ė vero pertanto che il verde di questi giardini è composto in gran parte da questi alberi seri e cupi, dei quali sembra che le altre stagioni non abbiano vgoluto sapere e che li abbiano lasciati all'inverno: dei pini, dei cipressi, dei larici, delle querce verdi; ma questi alberi d’inverno possono essere accostati ai più ridenti ripari della primavera, agli arbusti più ricchi dell’autunno agli alberi più brillanti dell’estate, ai lillà, ai tigli, ai platani, tanto che il loro verde melanconico, reso gaio per la vicinanza e alleanza di questi magnifici vegetali, cessa di rattristare il pensiero e di respingere lo sguardo.

Il verde di questi giardini assomiglia alle conversazioni di M. L: vi dominano i pensieri e i sentimenti della vecchiaia, ma i ricordi delle altre età brillano, si alternano a quelli e li rendono ancora più amabili. Ė M. L. che ha creato i suoi giardini. Ė là , è in questo affascinante ritratto che L. ritrova sé stesso. Arrivando alla vecchiaia, egli ha dimostrato del vero coraggio, congedando tutte le sue vecchie passioni, tra cui l’amore per la gloria a favore di quello per l’umanità.

A volte è circondato nel suo palazzo, dagli abitanti della campagna che entrano disperati e che ne escono felici. Altre volte, errando fra i prati, fra i concerti degli uccelli, attraverso il silenzio dei boschi, fino al mormorio delle fontane, gioisce di una bella mattinata di primavera, di una calma serata d’estate o di belle ore d’inverno. Spesso, al centro di un boschetto, seduto da solo e riparato sotto un tempietto di marmo, L. ama contemplare da lontano, attraverso il fogliame e le colonne, il mare tormentato dalla tempesta e il senato genovese con la sua ambizione. Ė la sera della vita di un uomo saggio.

(Traduzione dott. Gabriele LoNostro)

Bibliografia


Charles Mercier Dupaty Lettere sull'Italia nel 1785. Da Genova a Firenze A cura di Davide Arecco Introduzione di Carlo Bitossi

Ultimo aggiornamento 26 Ottobre 2022